Quante volte ci è capitato di sentir parlare di un conoscente, amico di amico, o vicino di casa che è caduto in depressione. E magari a questa notizia sono seguiti alcuni interrogativi: Come mai? In fondo ha tutto quanto: una famiglia, figli, una casa, un bel lavoro…. Superficialmente si tende a pensare che quella persona sia irriconoscente. In fondo è solo questione di impegno uscire da una situazione del genere. Con la buona volontà si supera tutto! Queste sono alcune delle credenze ingenue riguardanti questa patologia.
Probabilmente tale modo di concepirla deriva da un retaggio culturale. La depressione, e in generale la malattia mentale, è generalmente considerata come un qualcosa che si è, non qualcosa che si ha. Questo implica identificare la persona con la malattia di cui soffre. Essa dovrebbe invece essere considerata come un qualcosa che non fa parte della propria individualità e quindi che si può eliminare. Vi è una differenza terminologica sostanziale. Banalità, potrebbe sostenere qualcuno, ma le parole strutturano il mondo, il modo di percepire la nostra realtà e di dare un significato a ciò che ci circonda.
La visione comune della depressione come qualcosa che si è, crea una difficoltà ulteriore alla persona affetta di depressione. Stimola un già molto elevato senso di colpa. La persona sente ancora di più il peso di chi sta intorno e del giudizio gratuito di chi non ha mai conosciuto questo male. La persona con depressione quindi non si trova a dovere combattere solo la sua malattia ma anche lo stigma sociale dell’essere guardata come fallita.
Nella clinica si possono individuare molteplici tipologie di depressione. Ognuna ha le sue peculiarità e specifici decorsi temporali ma per semplicità qui mi riferisco alla depressione in termini generali.
La depressione è classificata come un disturbo del tono dell’umore che generalmente è flesso verso il basso. Questo spesso induce erroneamente a identificare tale disturbo come un semplice stato d’animo di tristezza che è possibile superare con una chiacchierata o con una semplice presa di coscienza delle fortune che si hanno. È parzialmente corretto pensare che la tristezza faccia parte della depressione, ma chi ne soffre non è semplicemente una persona triste. Il quadro clinico è molto più complesso. Esso tiene conto dell’effettiva compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e affettivo, delle manifestazioni sintomatiche e della loro durata. Per ciò che concerne le manifestazioni, oltre all’umore deflesso, cui abbiamo già accennato, possono caratterizzare un la depressione anche:
– Mancanza di energia (astenia);
– Impossibilità di trarre piacere da attività normalmente piacevoli (anedonia);
– Problemi neurovegetativi, come l’alterazione del sonno (insonnia o ipersonnia) e dell’alimentazione (ipo o iperfagia).
La depressione inoltre presenta fattori di rischio che sono sia genetici che ambientali. Le sue cause possono quindi essere molteplici, ma è importante pensare ad esse in senso non deterministico; è rischioso oltre che inesatto pensare, in un amibito come quello della psicologia, che vi sia sempre una sola causa a determinare un particolare effetto.
Corposi studi neuroscientifici hanno “fotografato” il cervello di persone affette da depressione evidenziando alterazioni anatomiche e funzionali. Ci possono quindi essere delle condizioni genetiche pre-esistenti di vulnerabilità. Esse possono contribuire a predisporre la persona a sviluppare esiti psicopatologici conseguentemente a eventi della vita stressanti.
La depressione però è una battaglia da cui si può uscire vittoriosi. Molteplici studi clinici e neuroscientifici hanno dimostrato come la psicoterapia sia in grado di operare cambiamenti significativi nella persona (Messina, 2013). Essi sono stati riscontrati sia a livello cerebrale che ovviamente di benessere psicologico. Il primo passo e il più importante resta la presa di coscienza e la motivazione ad affidarsi ad un professionista per operare un cambiamento.